martedì 30 marzo 2010

PROCLAMATO LO STATO DI AGITAZIONE DALLE RAPPRESENTANZE SINDACALI DEL VILLAGGIO TURISTICO DI CITTA' DEL MARE

DI SEGUITO IL COMUNICATO STAMPA ED UNA NOTA DI DUE RAPPRESENTANTI SINDACALI, IMPASTATO E PIZZO.

A TUTTI I LAVORATORI DI CITTA’ DEL MARE

Oggi, 30 marzo 2010, la Direzione di Città del Mare, con un gioco di prestigio, ha deciso di far scomparire dentro il cilindro della produttività, l’anzianità di servizio: è bastato un colpo di spugna per cancellare l’anzianità storica di ogni singolo lavoratore.

Ci è stato detto che, partire da quest’anno, le assunzioni verranno fatte facendo riferimento solamente alle ultime tre stagioni.

Noi R.S.U. abbiamo rifiutato questa “magica” scelta e proponiamo

L’IMMEDIATO STATO DI AGITAZIONE.

Le R.S.U.


LA LETTERA DEI RAPPRESENTANTI SINDACALI (R.S.U.)

Gentile Articolozero,

siamo stati costretti per la chiusura da parte della direzione del villaggio a qualsivoglia discussione sul rispetto dell'anzianità di servizio pregressa di ogni singolo lavoratore.

Non riusciamo a capire perché la crisi e la problematica della futura vendita del villaggio deve essere fatta pagare soprattutto al settore operativo e cioè a quei poveri cristi di lavoratori stagionali che fanno i lavori più umili e pesanti.

Purtroppo a Città del Mare si è instaurata una ristretta cerchia oligarchica che noi ironicamente chiamiamo "semidei" cioè che partecipano della natura divina ed umana e che decidono della nostra precaria e flessibile vita di stagionali dall'alto del loro contratto a tempo indeterminato: questa casta gode di una perenne professionalità, non invecchia e soprattutto non è sottoposta a nessun giudizio come noi poveri lavoratori a tempo determinato brutti, sporchi e cattivi.

L'unica difesa per noi, comuni mortali, sarebbe il rispetto nelle assunzioni dell'anzianità di servizio, ma anche questo ci viene negato dai semidei perchè in loro, come negli antichi sacerdoti egizi al tempo dei faraoni, risiede la saggezza ed il sapere.

Purtroppo nel nostro settore del turismo non abbiamo nè cassa integrazione e neanche mobilità e siamo condannati a misere pensioni di vecchiaia per chi è così fortunato d'arrivarci; infatti superando una certa età non sei più professionale e corri il rischio di perdere il posto: altro che scatti di anzianità, da noi si corre il rischio di uno scatto al cuore con tutta l'estrema precarietà che dobbiamo affrontare.

Ma la cosa più bella è la gara per poter prendere la disoccupazione, perchè bisogna lavorare in un biennio 52 settimane, che corrispondono ai fatidici sei mesi annuali, questo aumenta la competizione fra poveri disgraziati che come i polli di Renzo non smettono mai di beccarsi per dimostrare ai semidei di essere i migliori per essere scelti in una perenne rincorsa al servilismo ed al ruffianamento.

Appuntamento giovedì matina alle 8.30 per fare un bel pesce d'aprile ai nostri amati semidei.

Piero Impastato

Gianni Pizzo




lunedì 29 marzo 2010

NUOVA LETTERA AD ARTICOLOZERO

RICEVIAMO E VOLETIERI PUBBLICHIAMO

Voi siete proprio bravi a criticare, è facile. E le proposte? non basta distruggere, bisogna sapere costruire. Forse non pubblicherete queste mie parole, ma dovevo dirvi come la penso.
Polizzi Francesco

Caro Francesco,
il fatto che ci leggi è già importante: ci dà coraggio e stimoli, e di questo ti ringraziamo.
Come vedi ti sbagli. Ecco qui la tua lettera fedelmente riportata. Certo, se fossimo stati al TG1, te ne avremmo fatto pentire!
Ci siamo chiesti se, fra poco più di due anni, andrai ad annullare la scheda per le elezioni comunali (perché su questo e solo su questo puntiamo), scrivendo “articolo zero” nel suo bel centro. Oggi la tua risposta negativa ci sembra scontata, ma non si può mai dire per il futuro…
Ora entriamo nella sostanza della tua opinione espressa in modo secco e diretto, cosa che a noi non dispiace. Intanto ti invitiamo a leggere - se non l’hai ancora fatto - il manifesto degli astensionisti organizzati di Terrasini pubblicato sul nostro Blog col titolo: «Perché Articolozero?», peraltro ampiamente diffuso per mezzo di volantini. La nostra iniziativa - come abbiamo avuto modo di spiegare in altre occasioni - vuole essere uno strappo radicale non contro i partiti in quanto tali, ma contro la degenerazione di essi; contro la logica spartitoria ed arrivistica di coloro i quali, da anni ormai, pretenderebbero di rappresentarci dopo averci carpito il voto, mentre in realtà, o si fanno gli affari loro, o sono telecomandati (senza capire un cavolo di quel che fanno) da qualche burattinaio esterno ripetutamente trombato che staziona in piazza dal mattino alla sera. Ricordi le liste schierate come eserciti nelle ultime elezioni comunali? Saranno state una dozzina. Credi che sia stato quello un voto libero e democratico? Non ti sei sentito anche tu soffocato dal cugino-cognato-zio-fratello-sorella-zia-nonno-amico-amico dell’amico …! Quanti, alla fine, avevano le qualità per rappresentarci, non diciamo al meglio, ma al meno-peggio? Pochi, pochissimi ed infatti il risultato s’è visto!
Il nostro (ripetiamo, rileggi bene il manifesto) è un appello alle persone libere ed oneste di questo paese; è il tentativo di suscitare anche in chi non ne è capace da sè, un moto di indignazione contro questa parodia della democrazia trasformatasi in una specie di grande fratello. Dunque, una rivolta morale contro il trasformismo e l’opportunismo più cinici che hanno infettato ogni angolo di Terrasini.
“Articolozero” non è un partito e, dunque, per sua natura, non si propone di avanzare “proposte alternative”, ma quello di evidenziare politicamente e senza distinzione di appartenenza partitica, le malefatte, le storture, le prese per i fondelli. Tu dici: «E le proposte?» Noi rispondiamo, proposte a che e a chi, se, guardando in giro, scorgi il vuoto (lo zero) più totale? L’unica “proposta” possibile è quella di attivarsi per ricostruire (ora ci vuole) dalle fondamenta la “Terrasini Politica”. Per ottenere ciò non ci vogliono solo i Don Chisciotte che indichino la strada, ma soprattutto la mano ferma dei cittadini e delle cittadine consapevoli del loro potere democratico.
È singolare, infine, che tu, piuttosto che dirigere i tuoi strali contro il vuoto (lo zero) che da almeno un quindicennio degrada il paese, te la prenda con noi.
Ma, come dicevamo all’inizio, non si può mai dire per il futuro!
Saluti.

La Redazione

P.S.
(Da “Don Chisciotte”, una strofa tratta dalla significativa quanto famosa canzone di Francesco Guccini).
«Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro
perché il “male” ed il “potere” hanno un aspetto così tetro?
Dovrei anche rinunciare ad un po’ di dignità,
farmi umile e accettare che sia questa la realtà?».


venerdì 26 marzo 2010

A PROPOSITO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO

VI OFFRIAMO UNA FIABA QUANTO MAI ATTUALE, SCRITTA NEI PRIMI ANNI NOVANTA DAL PROF. GIOVANNI RUFFINO CHE RINGRAZIAMO PER AVERCI PERMESSO LA PUBBLICAZIONE SUL NOSTRO BLOG.


PRESENTAZIONE DELLA REDAZIONE

Il “nostro” Presidente del Consiglio, come è noto, è famoso per gli specchi. Nei giorni scorsi - come molti ricorderanno - si è fatto un gran parlare, ad esempio, di quello che ha “scagliato” contro Mercedes Bresso, presidente uscente della Regione Piemonte. «La Bresso? Quando si alza al mattino e si guarda allo specchio si è già rovinata la giornata». Dall’argomento («guardarsi in faccia al mattino») il sultano di Arcore sembra letteralmente ossessionato a giudicare dal numero di volte che lo ha usato contro l’avversario di turno.

E così, visto il frequente intreccio tra fantasia e realtà (ma la realtà, mai come in questo caso, supera la fantasia) abbiamo avuto l’idea di proporvi la moderna fiaba intitolata «IL PAESE DEGLI SPECCHI», scritta nei primi Anni Novanta, cioè all’inizio dell’«infezione berlusconiana», da Giovanni Ruffino.

Segue in calce una non meno interessante quanto gustosa nota linguistica sulla «imbroglioneria».

Buona lettura.


* * *


IL PAESE DEGLI SPECCHI

Una fiaba per i bimbi di oggidì

(dedicata ai nipotini del grande fratello o, se si preferisce, dell’illustre cerretano)


C’era una volta, ai piedi di un alto monte ricco di robusti cerri, un paese chiamato Speculònia. Questa terra di Speculònia si distingueva per una sua condizione specialissima: era un paese di specchi e i suoi abitatori altro non facevano che specchiarsi da mane a sera. Penserete forse a una sorta di crudele costrizione, e invece no, non era in alcun modo una imposizione - o almeno così sembrava -, ma la condizione stessa dell’esistere, tanto che tutto il restante (il nutrirsi, il riposare, il fare all'amore) veniva relegato a marginale accidente. Specchi dappertutto, dunque: un firmamento di specchi nel breve spazio di Speculònia.

Provatevi a immaginare questo mondo: specchi di cristallo di rocca, lucenti, levigati, purissimi. Specchi quadrati, ancorati cioè alla terra; specchi rotondi, proiettati verso la volta del cielo; specchi ottagonali, che in quella suggestiva simbologia rappresentavano il segno massimo di una compiuta armonia. Entro questo universo lucente si dispiegava la vita di quei fortunati. Gli abitanti di Speculònia ignoravano ogni forma diretta del comunicare, e praticavano una speciale forma di Speculazione come alto esercizio di indiretta conoscenza: colloquiavano solamente attraverso le immagini riflesse. In tal modo (attraverso, cioè, questa pratica della speculazione collettiva) si presumeva di eliminare l’angoscia generata dalla conoscenza di sé e di considerare semmai gli specchi come attributi della veritas e della prudentia. Accadeva dunque che, quando un giovinetto e una fanciulla destinati ad unirsi, si accingevano al rito del primo incontro, entravano da due opposte aperture dentro a una grande sala, e, invece di correre subito ad abbracciarsi, consumavano questo loro primo atto di conoscenza comunicando attraverso le loro immagini riflesse in un grande specchio quadrato situato in fondo all'ampio luogo, conosciuto come «Sala del grande specchio», o anche «Sala degli amorosi sguardi riflessi».

Questa filosofia della Speculazione conte grado più alto della conoscenza, era presente sin nelle pieghe più intime del sentire e del pensare. Inoltre, al confine estremo di quella terra, in alto, sulla grande porta ottagonale di specchi fulgenti, si potevano leggere queste parole: «Come il sole, come la luna, come l’acqua, come l’oro, sii chiaro e lucente e RIFLETTI ciò che è nel tuo cuore».

In questo straordinario luogo non c'erano leggi né signori, e men che meno primi ministri, consiglieri comunali o forze dell'ordine. Gli abitanti, poi, non avevano - come comunemente accade - un loro nome, cognome o soprannome. Quest’ultima circostanza potrebbe apparire del tutto incomprensibile se non la si collocasse nel contesto: i riflessi speculari sono tanto mutevoli da riverberare di una medesima persona immagini sempre dissomiglianti, un se stesso ogni volta diverso. In queste condizioni, dunque, che senso avrebbe avuto far corrispondere alla mutevolezza delle immagini riflesse la immutabilità di un nome, di un appellativo?

Quanto al resto, esisteva, a dire il vero, un Essere che - pur non potendosi definire sovrano, né principe, né primo ministro della terra di Speculònia - esercitava tuttavia su quella gente una sorta di oscuro potere, un potere che non si esprimeva attraverso azioni, parole, gesti, ma che ognuno percepiva in maniera distinta e al tempo stesso indefinibile e vaga. Sulla vera natura di quell'Essere si congetturava, indotti ora dalla paura ora dalla speranza, e così talvolta si concepiva come un’Entità crudele e malvagia; talaltra come un’Essenza indefinita, tutta quanta disposta a contemplarsi sotto forme molteplici, quasi ad esprimere la facoltà di potersi da se stessa determinare: una sorta di GRANDE FRATELLO.

Di questo Essere misterioso e tetro, che si diceva vivesse sulla sommità del più alto monte di Speculònia, si conosceva - tramandato da padre a figlio - il nome soltanto, LOKI, anch’esso indecifrabile e inquietante. Non meno indecrittabile era poi la scritta che si leggeva all'ingresso della sua cupa dimora:

ROT IN OM NON ALU CEPS

messaggio che gli abitatori di Speculònia sentivano carico di cupe minacce.

Vivevano poi, precipitati in un anfratto profondo dell’alto monte, altri due Esseri, uno di natura maschile, l'altro femminile, stupefacenti più che misteriosi. I loro nomi erano Endàch ed Endàche, che nella lingua di Speculònia volevano dire «essere vuoto», «essere fatto d'ombra». E infatti Endàch ed Endàche erano esseri del tutto incorporei, definibili come «uomo ombra», «donna ombra», condannati a vivere in quella insana spelonca perché soltanto colà s’erano potuti modellare nella cristallina rocca uno specchio perfettamente triangolare, il solo capace di riflettere anche i non corpi.

Endàch ed Endàche erano però sentiti come esseri non malefici e, per quanto si ignorassero le ragioni di quella loro straordinaria natura, si percepiva attorno ad essi un oscuro sortilegio, un malefico e inestricabile viluppo.

Per il restante, a Speculònia tutti erano, o sembravano, eguali: vivevano per specchiarsi e si specchiavano per continuare a vivere. Tutto il resto non contava. Vigeva però un solo divieto, un divieto drastico, assoluto, inappellabile: nessuno mai, in alcun modo o in alcun luogo, avrebbe potuto specchiare quella tal cosa di sé che si trova dentro e che si chiama COSCIENZA.

Sicché mai nessuno, a Speculònia, avrebbe potuto dire di un suo simile: «costui possiede una specchiata coscienza». Anzi, a dire il vero, tutti sussurravano di coscienza e di coscienze, ma nessuno sapeva in realtà cosa fosse di preciso, e i più la ritenevano una sorta di bolo gelatinoso e fluttuante, situato tra la radice del collo e l'ombelico.

Comunque sia, la proibizione era crudele, dal momento che gli abitanti di Speculònia erano convinti - pur non sapendo con precisione di cosa si trattasse - di avere delle magnifiche coscienze, e ciò li rendeva desiderosi, anzi bramosi di rimirarle nel più terso degli specchi. Ma nonostante ciò, il divieto veniva rigidamente osservato, e mai nessuno aveva osato trasgredirlo.

Viveva a Speculònia una fanciulla di rara bellezza. Era piccola di statura, ma tanto ben costruita nelle membra, da apparire flessuosa e slanciata come un giovane ornello. Il suo passo era leggero e al tempo stesso risoluto e sicuro come quello di una gazzella, tanto che i giovinetti guardavano

la immagine riflessa di lei con ammirato desiderio, e le fanciulle sue coetanee con malcelata invidia. Aveva capelli neri e lucenti, e due occhi verdi di straordinaria trasparenza si incastonavano in un volto dolcissimo, ornato da due labbra morbide e coralline. Questa splendida fanciulla - come tutti i comuni abitatori di Speculònia - non aveva un suo nome, e dunque d’ora in poi (per comodità e anche per nostro diletto) la chiameremo IEL.

IEL non era felice. Da quando il suo amante e sposo le aveva sussurrato che, oltre alle tante sue grazie, anche la coscienza doveva essere di straordinaria bellezza e assai desiderabile, ad altro non pensava, e con crescenti tormenti, che a scoprirne le fattezze riflesse in uno specchio.

E così, tra angustie, patimenti e inesaudite pulsioni, attraversò tutta la piena giovinezza. Quando però giunse al suo trentesimo anno, la voglia divenne tanto travolgente che un giorno deliberò di rinserrarsi all’interno della grande sala dello specchio quadro, pronta a consumare la più inaudita delle trasgressioni. Cominciò a denudarsi piano, tutta tremante, e quando rimosse l’ultimo velo poté vedere riflesso nella luminescente galassia dello specchio quadro quella sua limpida, tersa coscienza.

Dopo un primo momento di ammirato stupore, volle pienamente conoscere, anzi scrutare quella parte sinora ignota di sé, e così si contemplò a lungo, esplorandosi sin nell’intimo. Stava ancora indugiando, estasiata, quando uno spaventoso boato annunciò il più sconvolgente degli eventi, e quel firmamento di specchi andò in frantumi nel volgere di pochi attimi, sprofondando quelle terre nella più tetra oscurità e i suoi abitatori nella più grande prostrazione e in un cupo presagio di morte.

IEL comprese di essere stata la causa di un immane disastro: la sua trasgressione aveva dovuto in qualche modo turbare gli equilibri che governavano quel mondo, o forse si era spezzato un qualche misterioso incantesimo. E così trascorse molti giorni e molte notti nell’angoscia di vedersi morire tutti intorno e di morire essa stessa nella desolazione di quei luoghi prima così lucenti. Quando però venne la luna piena (che è, a volerci pensare, il più fascinoso degli specchi), ebbe un sussulto nel ricordarsi all’improvviso del vecchio saggio (si diceva avesse cinquecentanni), che viveva in un eremo quasi inaccessibile. Si mise in cammino, e dopo aver affannato per tutta la notte al chiarore del plenilunio, raggiunse sfinita e dolente la dimora di quello straordinario vegliardo.

Costui, come si è detto, viveva in totale isolamento ormai da molto tempo, ma nonostante ciò era in grado di conoscere tutto quanto accadeva nelle terre sottostanti, e dunque conosceva anche la terribile sventura che aveva sconvolto la vita di Speculònia e dei suoi abitanti. Il vegliardo però non ne aveva subìto conseguenza alcuna giacché il solo specchio della sua dimora, forgiato in levigatissimo bronzo, aveva resistito al totale e improvviso sconvolgimento.

IEL gli si gettò ai piedi supplicandolo di aiutarla, e così il buon vegliardo, con espressione severa e al tempo stesso benevola, si dispose a lustrare quel suo magico specchio. Lo lustrò a lungo, sino a quando non apparve nella tersa superficie bronzea la misteriosa frase che campeggiava davanti alla dimora del truce LOKI: «Se riuscirai a sciogliere l’enigma di questa scritta - disse il vegliardo - ogni cosa si risolverà».

Per quattordici giorni e quattordici notti (tanti ce ne vollero perché la luna ritornasse piena) IEL tentò in ogni modo di sciogliere l'arcano. Alla fine ogni segreto fu disvelato e l’oscuro messaggio fu sciolto: MONITOR NON SPECULA. Stava tutta qui la ingannevole illusione, nel motto malefico, anch’esso capovolto, rovesciato nei riverberi di quella globale speculazione.

A questo punto avvenne un altro fatto mirabile e inatteso. Quelle parole girarono vorticosamente su se stesse come inghiottite nel fuoco dello specchio, da dove alfine riemersero nuovi ammonimenti:

L’UOMO SI SERVE DEL BRONZO

COME SPECCHIO

L'UOMO SI SERVE DEL PASSATO

COME SPECCHIO

L’UOMO SI SERVE DELL’UOMO

COME SPECCHIO

Subito dopo una grande luce inondò quelle terre e tutti quanti si destarono come da un sonno lungo e profondo, mentre il castello di LOKI sprofondava in un’abissale voragine.

Ma l’evento tra tutti più straordinario fu di vedere i due ESSERI OMBRA (Endàch ed Endàche)

riacquistare i loro corpi e le loro sembianze, e ancor più straordinaria fu la storia che essi raccontarono.

Romeo e Italia (così si chiamavano nella realtà), erano stati, cento e cento anni prima, due amanti felici, sino a quando LOKI, il vanìdico ingannatore, invaghitosi della bella Italia, cominciò a tormentarla nelle forme più ossessive. E siccome la sua turpe bramosia era interamente volta a concupirla, ogni notte proiettava la sua mano nei grandi spazi eterei che lo separavano da lei. Quando però questo iniquo rito notturno dell’ètere ferito venne alla fine interrotto dalla coraggiosa fanciulla, la quale con un affilato coltello tranciò di netto quella orrenda propaggine, scattò la vendetta di quell’essere mostruoso, dalla cui mano mozzata si riprodussero milioni di monitor/specchi, mentre Italia e Romeo furono tramutati in vuote ombre. Tutti ebbero poi quella crudele condanna di trascorrere la loro esistenza a specchiarsi e specchiarsi sino alla più folle alienazione e a una totale sottomissione.

Ma ora, dopo lo smarrimento della fittizia speculazione, il lungo incantesimo era finito. Italia e Romeo tornarono ad amarsi e IEL (così continueremo a chiamarla), acclamata regina di Spèculonia, decretò che tutti quegli orribili, oppressivi strumenti fossero distrutti, e che da quel momento ci si dovesse soltanto specchiare reciprocamente negli occhi. E se un fanciullo o una fanciulla avessero desiderato di compiacersi della propria coscienza, avrebbero potuto farlo specchiandosi negli occhi del proprio amante.

In breve tempo gli occhi di quella brava gente divennero grandissimi e più lucenti degli specchi di cristallo di rocca; e con un altro decreto della sempre più amata regina, Speculònia cambiò il suo nome in Oculònia, e tutti gli Oculonesi vissero da quel momento felici e contenti.


NOTA LINGUISTICA

#Cerretano è la forma antica (e antiquata) di ciarlatano, parola ricostruita per etimologia popolare su ciarla ‘discorso vano, chiacchiera’. La vera origine di cerretano è il toponimo Cerreto (amena località umbra, ben lontana sia dalla Brianza, sia dalla Valle dei Templi). Cerreto di Spoleto era nota nel Medioevo per i suoi venditori ambulanti inclini alle truffaldinerie. Ce lo spiega già Ludovico Antonio Muratori nelle sue “Dissertazioni sopra le antichità italiane”:

Il nome di `cerretani' ebbe origine da Cerreto, terra del Ducato di Spoleto,

perché di là gran copia di ciarlatani solea uscire.

La prima attestazione risale al sec. XV, ed è di Antonio Pierozzi, noto col nome di S. Antonino di Firenze: Ippocrito fa tal simulazione per aver grandi e grosse limosine sanza molto bisogno, sotto nome di giusto e buono, come i cerretani, dei quali piuttosto si potrebbe dire, che vanno rubando e ingannando.

Da qui una fantasmagoria di accezioni, quali ‘accattone professionale’, ‘venditore ambulante che all’occorrenza si improvvisa medico, chirurgo, dentista, e ricorre a trucchi, giochi di destrezza ed espedienti sbalorditivi per spacciare meglio la sua merce e la sua opera’, ‘truffatore, imbroglione’. Interessanti anche i derivati: cerretanare ‘imbrogliare’, cerretaneria ‘ciarlataneria’, cerretanesco ‘ciarlatanesco’:

Ecco là in piazza una bandieraccia sopra certo banco cerretanesco,

alla cui ombra si riducono i mezzi disperati e tutti i falliti (Pietro Aretino).

# Il campo semantico dell'imbroglioneria merita qualche spicciola notazione.

Imbrogliare e imbroglio si caratterizzano per una ricca serie sinonimica con una gran varietà di registri, livelli d’uso e tonalità espressive. Già in latino l’imbroglione disponeva di un buon numero di eccellenti sinonimi: CIRCULATOR, CIRCUMFORANEUS, NEBULO, BLATERO, VANIDICUS, VANILOQUUS, VENDITATOR, CIRCUMSCRIPTOR (e alcuni altri). Per la lingua italiana c’è l’imbarazzo della scelta, lungo una scala che va dal livello familiare ed espressivo a quello spinto e triviale: aggiratore, bindolo, cavalocchio, (ac)chiappaminchioni, parabolone, gabbaminchioni, garbuglione, lestofante, mastroimbroglia, mestatore, truffatore, vendifròttole, vendifumo, fànfano, truffaldino, gabbamondo (e i romaneschi magliaro e pataccaro, da patacca ‘grossa moneta di scarso valore’). E per imbrogliare: bindolare, fottere, fregare, turlupinare, buggerare, buscherare. Per il siciliano potremo servirci del generico (e italianeggiante) mmrugghiuni (con la variante mmrugliuni e l'espressivo mmrugghiunazzu), ma se si vuole si può ricorrere anche agli arcaici e meno generici ciarmaturi e ciràulu, e all’esotico bazzariotu (con z sonora, come in bazar).

# Può essere anche utile qualche postilla etimologica.

La voce imbrogliare (costruita su brogliare ‘far brogli’) è un francesismo (brouillier, ‘mescolare’, da brod, parola di origine germanica da cui anche l’it. brodo). Bìndolo (da cui abbindolare) è anch’esso un germanismo (windel ‘argano’) e propone la metafora dell’arcolaio (strumento che (rag)gira). Farabolone è alterazione di parabolone ‘chiaccherone che molto promette e poco o nulla fa’. Garbuglione va con garbugliare e garbùglio ‘intreccio, viluppo intricato’, voci di origine incerta (della famiglia di BULL(I)ARE ‘far bolle’? rifacimento espressivo di voci come guazzabuglio, subbuglio?). Lestofante equivale a ‘garzone (fante) lesto’ (anche di mano). Fànfano è voce toscana di origine espressiva, semanticamente e formalmente simile a fanfarone, che però è un ispanismo del 1600 (fanfarron). Fregare da FRICARE col senso di imbrogliare, discende dal significato di rubare, attestato sin dal secolo XVI. Turlupinare deriva da Turlupin, nome di un famoso comico francese del 1600.

Buggerare (di cui buscherare è deformazione eufemistica) deriva dal latino mediev. BULGERU, BUGERU, varianti di BULGARU ‘bulgaro’, che assunse poi il significato di ‘eretico’ e ‘sodomita’ (nel Medioevo i Bulgari erano considerati eretici. Inoltre, nella concezione medievale e dantesca, le pene infernali sono consimili per eretici e sodomiti).

I termini siciliani ciràulu e ciarmaturi richiamano entrambi atmosfere di incantamento e di fascinazione. Ciràulu era l'incantatore di serpenti, e continua il grecismo latino CERAULA ‘suonatore di corno’, significato che in Sicilia e nell’Italia meridionale ha assunto un senso stregonesco. Ciarmaturi deriva dall’antico francese charmer, che continua il latino tardo CARMINARE ‘fare incantesimi’, da CARMEN nel senso di ‘formula magica’ (francese charme e italiano ciurmare, ciurmerìa, ciurmatore).

#Monitor è voce inglese (monitor screen ‘schermo avvisatore’), penetrata nell’italiano intorno al 1960 (inizialmente nella forma monitore). Attraverso la voce inglese, anche forme come monitoraggio, monitorare, monitorizzare. Tutte queste voci appartengono alla grande famiglia etimologica del latino MONERE (con ADMONERE, MONITOR, MONITUM): ammonire, mònito, monitore, ammonizione, ammonimento.

Due esempi, uno istruttivo, l’altro benaugurante:

Coloro che sono di mala natura, non si muovono per ammonimenti a far bene (dal “Tesoro” di Brunetto Latini, volgarizzato da Bono Giamboni nella seconda metà del sec. XIII).

Ebbi due o tre ammonizioni, poi fui sospeso dall'impiego; poi fui destituito (G. D'Annunzio).